Il Festival della Mentina nasce nel 2013 a Sarzana in maniera pretestuosa. Il pretesto è il Festival della Mente, il testo è il sottotitolo: “il primo festival riduttivo”. Pretestuosamente la Mentina si configura quindi come un Festival “off”.

Il Festival della Mentina non è (solo) un evento che dura tre dei trecentosessantacinque giorni di un anno, bensì è una delle produzioni del Lavoratorio artistico di Sarzana, una casa di cultura attiva tutto l’anno. Si configura quindi come una parte di una identità culturale che si crea con tutte le azioni artistiche e culturali che portiamo avanti quotidianamente. È (anche) una risposta all’eventismo degli organizzatori culturali e delle istituzioni, che troppo spesso scambiano e/o hanno scambiato l’idea di fare cultura (e il conseguente stanziamento di soldi) con il solo organizzare eventi.

Il sottotitolo del Festival della Mentina è: “il primo festival riduttivo”. La poetica riduttiva non caratterizza solo la direzione artistica delle giornate del festival, bensì sottintende tutte le attività della nostra casa di cultura. Coincide con le nostre azioni. Ma che cos’è questa poetica “riduttiva”? Da dove arriva? Cosa c’è di innovativo?

Possiamo dire che la poetica riduttiva applicata alla cultura agisce in due ambiti fondamentali: quello sociale e quello economico.

In ambito sociale (come viene percepita la cultura, come la si fruisce e la si vive, come vibra all’interno della società), il termine riduttivo è abbastanza semplice: parliamo di riduzione. Ma ridurre cosa? Ridurre la distanza tra chi crea cultura e chi di cultura è in cerca. Ridurre le distanze, quindi, riappropriarci del concetto/qualità di “popolare”, non di massa, che tanto servirebbe alla cultura. Farla volare bassa e nel suo essere rasoterra, diventare più intercettabile. Ad altezza uomo.

In ambito economico la poetica riduttiva parte da alcune riflessioni e dalle nostre esperienze lavorative. Spesso si è sentito dire che con la cultura non si mangia. Bene, noi crediamo invece che con la cultura si mangi e si sia mangiato anche troppo. La maggior parte di quelli che si sono rimpinzati ai tavoli della cultura è la stessa che si è tenuta lontana dall’obiettivo più nobile del lavoro culturale: la produzione. Il concetto di produzione culturale è stato via via svuotato della sua importanza, della sua bellezza e del suo significato.

Non di rado le amministrazioni o gli enti privati assegnano spazi e tempi a mediatori e operatori, che letteralmente li farciscono con occasioni culturali, spesso indirizzando gli artisti a creare in fretta e furia per fare cassa. Il processo creativo dovrebbe essere l’esatto opposto: avere un progetto, organizzare una produzione e chiedere spazi e tempi opportuni. Per ciò che riguarda la cassa, è la qualità del progetto che dovrebbe concorrere a riempirla.

La produzione culturale ha oggi un significato che a noi sfugge; è forse proporre rassegne teatrali o musicali? O magari organizzare cinque festival di due giorni ciascuno? È forse accedere ai finanziamenti ministeriali (di teatro ora si parla) come compagnia di produzione, raccattando a destra e a manca, da altre compagnie, i borderò che attestano il numero di spettacoli fatti? Produrre cultura significa rassegnarsi ad essere dei mediatori? Secondo noi no.

È necessario ridurre la distanza tra l’autentica e concreta produzione culturale e i finanziamenti che la rendono possibile: scavalcando quelle figure che vivono nell’intercapedine comunicativa e organizzativa tra l’atto creativo e l’economia che lo sostiene. Questo è il centro della poetica riduttiva: mettere a profitto la bellezza e non approfittarsi delle cose belle, escludere gran parte dei mediatori e, perciò, ottimizzare le risorse a disposizione e avvicinarsi così ancora di più al pubblico, unico destinatario legittimo di ogni azione artistica, per incontrarlo non nella patina di un social o rivista di settore, non ad un vernissage o ad una cena inaugurale in piedi, ma qui, nella realtà, dove dovrebbe abitare e crescere la cultura di tutti i giorni.

Ogni attività culturale dovrebbe far fiorire intorno a sé una identità e, nelle migliori delle ipotesi, un movimento culturale che la preservi dall’asfissia, dalla ripetitività e da eventuali esternalizzazioni. Spesso abbiamo visto rassegne interessanti morire o essere trasferite altrove nell’indifferenza generale (al più si è letto qualche post piccato sui social). Qui il problema non è tanto la fine di un evento, ma il perché di questa conseguente indifferenza.

Ecco che produrre cultura significa prendersi la responsabilità di creare qualcosa, confrontandosi con la realtà e le sue necessità: un rischio e un’impresa (anche culturale). Il Lavoratorio artistico ha, col tempo, dato vita ad un collettivo che vede nella produzione il cuore delle sue attività ordinarie. La Mentina è solo una di queste ed è riuscita a differenziarsi dalla maggior parte dei festival culturali. Questi, spesso, approdano nelle città e poi se ne vanno via per sempre, per lo meno per un anno, magari senza legami o relazioni col territorio. La Mentina ha proposto e proporrà anteprime, progetti, idee destinati a svilupparsi le settimane e i mesi subito successivi, contro l’eventismo dilagante e culturalmente inerte che, però, di fatto è premiato dagli investimenti pubblici e privati.

Così facendo, si crea un circolo virtuoso di contenuti e, perché no, anche un indotto di partecipazione non legato esclusivamente alle stagioni turistiche.

La Mentina è la festa del Lavoratorio artistico che presenta sì spettacoli, concerti, radio, ma soprattutto incontri tra persone, un modo di fare e vivere la cultura come qualcosa che non si esaurisca qui ed ora, colla Mentina stessa: ha radici precedenti e rami che si gettano verso il futuro.

Noi non crediamo nei direttori artistici, ma nelle direzioni artistiche, intese come percorsi, obiettivi creativi. Non crediamo negli operatori culturali, ma in chi opera nella cultura.